Qual è il contributo delle gambe nello stile libero? Il prof. Gatta lo analizza scientificamente e ci spiega quali aspetti della gambata vanno maggiormente allenati
Secondo diversi antropologi l’uomo, nel passaggio da terreste ad acquatico, è stato costretto a ristrutturare il suo modo di muoversi e – pur nascendo ancora immerso nel grembo materno – il suo ritorno all’ambiente acquatico come nuotatore appare molto più difficile di quello che si potrebbe immaginare.
Diverse teorie si confrontano su gli eventi che inducono a pensare che l’uomo sia un essere acquatico trasformato in terreste e altre, al contrario, che lo considerano come completamente inadatto a stare nell’acqua. I sostenitori della prima teoria sottolineano alcuni importanti eventi che si evidenziano entrando in acqua, ad esempio quando l’incremento di pressione dovuto all’immersione tende a schiacciarci, il sangue si concentra agli organi più interni per evitarlo (effetto blood-schift). Oppure la riduzione della frequenza cardiaca e la distribuzione selettiva dell’ossigeno al cervello dove è essenziale, anche solo immergendo il volto in una bacinella (effetto diving-reflex), e come non osservare compiaciuti l’apnea spontanea nei neonati immersi pochi istanti dopo il parto! Insomma, tanti eventi che lascerebbero stupiti i più curiosi leggendo “Your inner fish”, scritto dal professore di anatomia dell’Università di Chicago Neil Shubin dove si spiega che molte malattie sono dovute al fatto che …. nella nostra evoluzione, purtroppo non siamo rimasti pesci.
Altrettanti eventi però sono presentati dai sostenitori opposti e si basano sul pessimo rapporto tra il nostro corpo e l’acqua. Se ad esempio partiamo con il paragone tra l’uomo ed il miglior mammifero nuotatore, l’uomo non entra neppure in gara: il nostro movimento è frenato da una resistenza enorme, consumiamo più energia di un carro armato nel traffico cittadino. Il nuotare è, tra le forme di locomozione umana, la più lenta che esiste. Insomma, il nostro corpo non è idrodinamico e i nostri arti sono troppo lunghi e sottili per essere efficienti!
E così, passando dal cammino allo stile libero, appare evidente che gli arti debbano invertire i loro compiti. Nel cammino le gambe permettono di avanzare e le braccia oscillano in “deambulazione incrociata”, cioè contemporaneamente alla gamba contro-laterale per bilanciare il passo ed evitare di perdere l’equilibrio. In acqua le braccia diventano le principali responsabili del movimento, accollandosi circa 85% della propulsione e alle gambe viene passato il compito di “bilanciare” la posizione, evitando che il corpo ruoti sul proprio asse (Persyn, 1995) e che le gambe stesse non affondino pesantemente “dietro” di noi (Zamparo 1996).
Ma non entrando nei meandri dell’evoluzionismo di questi eventi, quello che non sfugge agli allenatori di nuoto è quel 15% di propulsione a carico degli arti inferiori e, partendo da una sana “deformazione professionale”, ci si pone subito l’idea di come sfruttarlo o migliorarlo, per vincere le gare.
Le gambe sono molto più potenti delle braccia, ma la limitata mobilità delle loro articolazioni non permette di produrre un gesto molto utile.
Nuotare a stile libero solo con le gambe provoca una notevole produzione di acido lattico (Meyer 1999) e un consumo di ossigeno 3/4 volte maggiore che nuotando a sole braccia (Adrian 1966). Insomma, l’uso delle gambe produce scarso vantaggio e molto consumo. Inoltre sembrano poco allenabili: Konstantaki (2007) ha valutato che, in nuotatori che si allenavano nello stesso modo, chi dedicava il 20% dell’allenamento in modo specifico alle sole gambe non traeva alcun vantaggio “statisticamente significativo” per una performance sui 400 stile.
Anche noi abbiamo partecipato all’osservazione dell’evento pubblicando un lavoro scientifico sulla rivista Sport Biomechanics (“Power production of the lower limbs in flutter-kick swimming” -11-2012).
In questo lavoro la nostra attenzione è stata rivolta alla percentuale di propulsione che le gambe sono in grado di fornire durante uno sprint alla massima velocità. Il test che sta alla base della ricerca consisteva nel trainare 18 nuotatori di livello nazionale, prima in posizione di scivolamento passivo, poi battendo le gambe alla loro massima intensità, a diverse velocità crescenti, mentre si misurava la resistenza incontrata durante l’avanzamento. La macchina utilizzata in questione (Ben-Hur ApLap Roma) è dotata di un motore elettrico che avvolge un cavo di nylon, al quale si aggrappa il nuotatore per fasi trascinare per tutti i 25 metri della vasca.
Il contributo propulsivo delle gambe dei nuotatori è mediamente intorno ai 50 Newton (circa 5 kg) su velocità che si attestano sui 1,26 m/sec. Come si incrementa la velocità, il traino incomincia a lavorare ed è facile calcolare il contributo delle gambe, dal delta che si determina confrontando la resistenza misurata tra le prove senza battuta di gambe e quelle alla stessa velocità, ma con massima battuta di gambe. Il dato interessante trovato è che, con l’incremento della velocità, cala il contributo propulsivo delle gambe. Questo effetto è dovuto alla dinamica del movimento. L’azione propulsiva delle gambe è raffigurabile graficamente dalla forza che agisce sulla perpendicolare del dorso del piede mentre compie l’azione (definita down-beat) dall’alto verso il basso.
Scomponendo questa risultante in un parallelogramma di forze, si evidenziano 2 componenti: un vettore “lift”, che sostiene la gamba dall’affondamento e un vettore propulsivo: “drag”, con spinta verso “dietro” che provoca avanzamento. Con l’incremento della velocità l’azione di down-beat non è più verticale, ma acquista una direzione tendente a quella del vettore lift, dovuta allo spostamento verso avanti del nuotatore. Risulta quindi inevitabile una perdita di spinta, misurabile nella funzione: ηL = -48,16x+112,8 dove il valore della potenza espressa in watt è funzione della velocità (x). Da questa funzione è possibile stimare che alle velocità teoriche di circa 2,3 m/sec. le gambe non aiuteranno più il nuotatore nell’avanzamento.
Le considerazioni che si possono fare sono che l’elemento più importante, per ottenere maggior effetto dalla spinta degli arti inferiori, non sembra essere la ricerca di un maggiore potenziamento muscolare, quanto un elevato livello di mobilità articolare per quanto riguarda la flessione plantare della caviglia.
Questa articolazione ha margini di ampliamento d’escursione limitati e sembra ora evidente che questa pinna nell’uomo si sia nel tempo addrizzata per permettergli di stare in piedi ed è piuttosto strano che ora la si voglia ri-riflettere!!!